Il giornalista nell’età dello smart working: gli interventi di Tartaglia, Fiengo e Facchini
di Giancarlo Tartaglia
La fase emergenziale dovuta alla pandemia per il Covid19 è ormai alle spalle e c’è da augurarselo, in via definitiva. In questi mesi i decreti governativi hanno cancellato diritti costituzionali fondamentali e hanno introdotto limiti allo svolgimento del lavoro, imponendo, laddove fosse possibile, il ricorso allo smart working. Si è trattato di misure eccezionali limitate nel tempo. Oggi quell’eccezionalità non esiste più e si dovrebbe tornare alla normalità. Nella fase di emergenza nessun giornale ha interrotto la propria produzione. La libertà di stampa non è stata intaccata, ma tutti i giornalisti sono stati costretti a lavorare da casa: lo smart working ha regnato sovrano in tutte le redazioni e in alcuni casi si è rivelato, non una soluzione temporanea dovuta alla contingenza pandemica, bensì una prospettiva per il futuro. Qualche direttore-editore ha pensato che il futuro della professione giornalistica possa e debba identificarsi con lo smart working, cancellando le redazioni come luoghi fisici per la creazione quotidiana del giornale.
È bene, perciò, che la categoria dei giornalisti si interroghi approfonditamente su questa modalità di esercitare la propria prestazione professionale e sui “benefici”, che essa può produrre, ma anche sui “malefici”, che una innovazione di questo tipo può apportare al lavoro del giornalista.
Esistono, ovviamente, aspetti psicologici, ma anche sociologici, che non vanno sottovalutati, anzi, che devono essere approfonditi con molta attenzione. Vi è poi un aspetto sindacale, che è quello relativo alle norme contrattuali. Prima, però, di avventurarsi nelle richieste di nuove norme è opportuno verificare quali siano gli strumenti che già oggi esistono nel contratto collettivo di lavoro e che possono essere richiamati per affrontare la questione.
Il Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico è un corpus normativo costruito nel corso degli anni con l’obiettivo di regolare l’esercizio di una professione difficilmente inquadrabile nell’ambito del lavoro subordinato. Non a caso l’art. 7 del Contratto, nello stabilire l’orario di lavoro settimanale del giornalista, specifica che “l’esercizio dell’attività giornalistica rende difficile l’esatta determinazione del numero delle ore di lavoro e della loro distribuzione”. Perché questa precisazione? Per la semplice constatazione che il lavoro giornalistico non si svolge tutto e sempre nelle stanze della redazione. Il cuore di ogni giornale quotidiano è la cronaca e i cronisti svolgono la loro attività per le strade, nelle questure, negli ospedali, ecc., ovunque accadono fatti di cronaca di interesse generale. Il vecchio adagio, che il giornalismo è un mestiere che si fa consumando la suola delle scarpe, ancora oggi indica lo spirito con cui si deve fare questo lavoro. Una cronaca composta tutta in redazione, assemblando comunicati stampa, non è una cronaca, ma l’anticamera della morte del giornale.
I giornali, però, non sono fatti soltanto di cronisti. Vi sono molte altre mansioni, che svolgono principalmente la loro attività all’esterno. Si pensi ai corrispondenti dall’estero, si pensi agli inviati, ai critici, agli informatori politico-parlamentari o ai vaticanisti, tutte mansioni che comportano inevitabilmente una presenza extra redazionale. Anche per questi giornalisti l’essere prevalentemente fuori dalla redazione è una prerogativa essenziale e lo svolgimento del loro lavoro è già regolato dal Contratto Collettivo.
Con lo sviluppo tecnologico e la possibilità di scrivere da remoto e trasmettere i propri “pezzi” in tempo reale alla propria redazione o addirittura direttamente in tipografia, si è iniziato ad utilizzare lo smart working anche per il lavoro tipicamente redazionale.
A questo punto è necessaria una riflessione. Il giornale, anche nella legge sul diritto d’autore, è considerato un’opera intellettuale collettiva. Collettiva non vuol dire che sia soltanto la somma di contributi individuali, ma che sia il frutto di una collettività redazionale. La redazione, nella produzione di qualsiasi giornale, è lo strumento fondamentale attraverso il quale passano la discussione e il confronto per arrivare alla elaborazione complessiva del prodotto che ogni giorno viene confezionato. Di conseguenza, la smaterializzazione della redazione, che si potrebbe tecnicamente realizzare con l’applicazione integrale dello smart working, potrebbe produrre un danno incolmabile al giornale stesso.
A tutela del lavoro in smart working è intervenuto già nel 2017 il legislatore con la legge n. 81 del 22 maggio, che ha voluto individuare “misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Queste norme si applicano anche al lavoro giornalistico nel quadro, ovviamente, di quanto stabilito nel Contratto Collettivo. Ma cosa in sostanza prevede questa legge? In primo luogo che lo smart working si possa attuare in accordo tra le parti, intendendo per parti il datore di lavoro e il singolo lavoratore. Una disposizione questa che trova però un limite nel contratto di lavoro, laddove si prevede l’obbligo di un preventivo accordo collettivo da stipulare tra il direttore e il Comitato di redazione.
Un altro punto rilevante della legge è quello che prevede il diritto del lavoratore in smart working a mantenere il trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi per i lavoratori che svolgono le medesime mansioni all’interno della stessa azienda. Infine, elemento non secondario, c’è l’obbligo del datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza di chi svolge la propria prestazione lavorativa in smart working.
Questo è quanto prevede la legge e non è poco. Ma le norme di legge devono trovare applicazione nell’ambito delle disposizioni del Contratto Collettivo. Non si deve mai dimenticare che un passaggio di estrema rilevanza nel lavoro giornalistico è quello definito negli artt. 6 e 34 del Contratto. In sostanza, nelle aziende editoriali di quotidiani e periodici, l’organizzazione del lavoro è di esclusiva competenza del direttore del giornale, sentito il Comitato di redazione. Ciò significa che l’organizzazione del lavoro non è mai di competenza del datore di lavoro, ovvero dell’editore. È questo il passaggio centrale del Contratto Collettivo di categoria e del lavoro giornalistico.
Ne consegue che lo smart working non può essere unilateralmente introdotto dall’azienda editoriale, né tanto meno contrattato individualmente tra azienda e singolo giornalista. Lo smart working deve essere previsto nell’organizzazione del lavoro, frutto del confronto tra direttore e Comitato di redazione.
A tutto ciò si deve aggiungere che nei casi di smart working, per l’obbligo di tutela della salute e della sicurezza del lavoro previsto dalla legge 81/2017, devono inevitabilmente trovare applicazione le norme sull’ambiente di lavoro e la tutela della salute previste dall’art. 42 del Contratto Collettivo, nonché dall’allegato E del contratto stesso.
Questo è quanto oggi già previsto dal Contratto Collettivo in materia di smart working. È sufficiente? La risposta sarà data nel futuro, ma una cosa è certa: non siamo all’anno zero e non siamo privi di norme che possano tutelare il lavoro giornalistico. Un compito importante spetta ai Comitati di redazione, che sono chiamati a tutelare il corpo redazionale e a vigilare sulla corretta applicazione del Contratto Collettivo. Sarà bene che i Comitati di redazione riprendano a svolgere la loro funzione, in ogni testata, di protagonisti e soggetti centrali, nella consapevolezza che la smaterializzazione delle redazioni comporterebbe ineluttabilmente il venir meno del loro ruolo e delle loro funzioni.
https://www.fnsi.it/il-giornalista-nelleta-dello-smart-working
Qui di seguito, l’intervento sul tema del giornalismo nell’età dello smart working a firma di Raffaele Fiengo, comitato scientifico della Fondazione Murialdi.
Il giornalista nell’età dello smart working (2) Prosegue il dibattito sull’uso dello smart working nel lavoro giornaistico aperto con un intervento del Segretario Generale della Fondazione Giancarlo Tartaglia.
Di seguito, ecco il contributo di Raffaele Fiengo, componente del Comitato Scientifico della Fondazione.
Il giornalismo è un’opera comune
“Working at home” durante le settimane paurose del Coronavirus è stato l’unico modo per portare in edicola e nelle case (dove eravamo tutti rinchiusi salvo brevi uscite ammesse per cibo, farmaci, giornali e sigarette) l’informazione qualificata, bene primario. A Milano ho fotografato più volte la fila all’edicola e mi ha scaldato un po’ il cuore. Pensare però che sia stato scoperto, come una mela caduta da un albero, un nuovo modo di fare i giornali (economico e innovativo) porta su una strada sbagliata.
Esiste un principio solido, collaudato, una costituzione materiale del giornalismo: “L’impostazione del lavoro giornalistico è il frutto di un’opera comune, al quale ogni giornalista è chiamato a partecipare secondo le sue competenze. Il direttore, e chi lo rappresenta, ha una funzione di guida che esercita solidalmente con l’intero corpo redazionale, nel riconoscimento delle rispettive prerogative”.Questo testo fu emanato (verso la fine della breve “primavera di via Solferino“) da Piero Ottone, il 4 aprile del 1972: è una frase dello “Statuto del giornalista” e ha avuto anche un bagno giuridico che lo ha reso carattere non transitorio della testata “Corriere della Sera”.
Ma non si tratta di una nostalgia tirata fuori da un archivio, né vale solo in via a Solferino, nei grandi media. Non è un fatto del passato.
Appena qualche mese fa, il 16 novembre, Jay Rosen, che insegna alla New York University, aprì una discussione molto partecipata chiedendosi in che cosa consista la cultura della newsroom, della redazione. Lo fece con una serie di tweet in successione, un “thread”. Partiva così: “By newsroom culture I mean the beliefs, attitudes and styles that young journalists acquire as they learn to be pros. An occupational culture is absorbed by people more than it is taught to them. It is neither a conscious nor a fully unconscious possession, but semi-conscious”.
E’ venuto fuori che se un giornalista entra a far parte di una redazione in pochi giorni diventa parte integrante e attiva di quella “cultura”. Questo fatto è riscontrabile in ogni dimensione e forma, dalle più piccole radio locali, ai siti grandi e piccoli. In alcuni casi à assai forte e trova un riferimento chiaro in una persona, come accade ancora a Milano con Piero Scaramucci.Lo scambio e l’arricchimento continui sono il dato prevalente.
Ma in che senso un giornale, stampato o realizzato in qualunque altro linguaggio, radio, televisivo o web, è “una opera comune”? Come viene fuori in concreto?
Basta osservare la fabbrica delle notizie nella sua dinamica reale per scoprire che è così, perfino se prendiamo in considerazione un singolo articolo. Infatti nei casi di riconosciuta qualità non è nemmeno prevista necessariamente la firma, come è scritto nella storia di testate come Time e l’Economist.In Italia, l’organizzazione attuale ha preso corpo cinquant’anni fa quando è caduto l‘ “organigramma verticale”, il giornale che nasceva da una piramide a scendere, dal vertice ai luogotenenti: il direttore convocava il capocronista, poi il capo della Politica, quello dell’Economia, il responsabile degli Interni e degli Esteri. E dava disposizioni. Il giornale insomma nasceva e prendeva corpo dall’alto.
Questo modello non è caduto per la “rivolta delle redazioni”, che pure c’è stata, per la volontà dei giornalisti di essere giornalisti dopo il Sessantotto. E’ stata una necessità naturale per il numero crescente delle pagine e dei temi.
In forme simili, in tutte le realtà, un “nuovo modo di fare il giornale” si vede, fin dalla riunione del mattino o del primo pomeriggio, con i capi di tutte le sezioni chiamati attorno a un tavolo che annunciano il menù del giorno in base alle notizie che sono arrivate e si stanno sviluppando.
E’ quasi misurabile il valore dello scambio delle diverse sensibilità e competenze che si incrociano e si influenzano, anche con una battuta, nella dinamica della “conference room”, la “riunione”. Restiamo sulla carta stampata. Ma vale per tutti i media.
Seduti attorno a un tavolo troviamo: Interni – Politico – Esteri – Cronaca cittadina – Cultura e tempo libero – Economia e lavoro – Spettacoli – Cultura – Weekend/Sabato e Domenica – Scienze – Sport – Ufficio romano (per testate lontane dalla Capitale) – Magazine (quando c’è) – Salute – Online – Grafica – marketing (talvolta).
E’ talmente importante, decisivo, per capire come nasca l’”opera comune”, che ho sempre letto agli studenti gli appunti presi su un quadernetto il 12 settembre del 2001 durante la riunione in sala Albertini. In quel caso (nel giro di pochi giorni) nacque addirittura un nuovo linguaggio dei quotidiani, a incominciare dalle frasi di citazioni messe in cima a tutte le molte pagine ogni giorno.
L’inizio della riunione spesso è dedicata al confronto con gli altri giornali in edicola, è spesso necessariamente impietosa.
Sul momento, non tutti apprezzano, perché la trasparenza ha dei costi umani, anche personali. Le brutte figure sono inevitabili e gli incidenti sono frequenti. Non solo per i “buchi”. Un esempio: tutti scrivevano tranquilli che nei cortei dei primi anni Settanta si gridava “Basco nero, il tuo posto è il cimitero”. Giampaolo Pansa diceva “Attenzione!” (e aveva ragione). E finiva talvolta in lite. E non dico quando il ”Corriere” mise una bistecca in prima pagina… Ma il giornale come “intellettuale collettivo” faceva un balzo in avanti. Per favore, nessuno pensi che con Zoom sia la stessa cosa.
Questo cambiamento, però, non è un processo lineare in Italia perché il giornale, a parte l’assenza di libertà del ventennio fascista, né prima né dopo ha chiara la vocazione ai fatti per permettere una autentica formazione dell’opinione pubblica in una democrazia. Talvolta questo accade, in circostanze eccezionali. Il caso Moro, l’uccisione di Falcone e Borsellino, un grande pericolo. Ma nella sua vita quotidiana il giornalismo (a partire dall’Ottocento) fornisce soprattutto ai ceti dirigenti e dintorni le “idee”, gli strumenti e gli elementi per dispiegare il campo di forze qual è. Il numero delle copie vendute in Italia, sempre fanalino di coda, dice questo.
Comunque mentre questo rinnovamento avveniva ho potuto vedere e analizzare in tempo reale sul luogo molti modelli da tenere presente: New York Times, Washington Post, Chicago Tribune e Los Angeles Times. In verità ho proprio cercato di copiare la macchina dove funzionava meglio. E ho sempre trovato l’opera comune in costruzione continua.
Per essere onesti la sostanza del ruolo dei giornalisti nella costruzione comune in Italia veniva tuttavia diminuito già nell’organizzazione prevista.
Avevo visto negli Stati Uniti un sistema molto semplice e funzionante, nei grandi quotidiani.
Ogni sezione del giornale avviava in proprio tutto quel che succedeva sotto il proprio tema. Metteva in moto i giornalisti, chiedeva gli articoli, valutava il peso delle notizie. Questo richiedeva una notevole caratura del capo della sezione. Per rendere l’idea, il famoso Bob Woodward del Watergate, dopo il clamoroso successo, faceva il capo cronista con le sue human stories.Quando nel pomeriggio il giornale incominciava a prendere forma, il centro decisionale passava al direttore e si suoi collaboratori che avevano letto-valutato-discusso nella riunione del pomeriggio, sul peso e la collocazione delle notizie e degli articoli, dopo i confronti. E calavano la parola finale. A partire dalla Prima pagina.
Niente di tutto questo nella traduzione italiana, quasi dappertutto. Il più naturale dispiegamento in tutti i redattori della professione dei singoli (e del suo valore aggiunto civile ed economico) veniva visto come assembleare, se non sovversivo.
Certe pratiche (come siglare ogni notizia con le agenzie o red.est, o mettere i nomi del fotografo) sono via via cadute. Eppure erano importanti. Se pubblico una notizia di un premio insignificante è giusto che la redazione culturale se ne assuma la responsabilità con un “(red. cult.)”.Il discorso scivola verso una perdita di peso del giornalismo nel prodotto.
L’espansione del marketing e le forme ibride della pubblicità nativa sono un fatto con cui si devono fare i conti. E i redattori coinvolti si sforzano di farli con onestà. Nè mancano articoli pregevoli, servizi e inchieste come fiori su un brutto muro. Ma non possiamo nasconderci che, dall’ anno 2000, con il crollo progressivo di pubblicità e copie la cosiddetta “informazione di confine” ha conquistato molti spazi.
Non riesco a essere contrario all’allargamento di notiziabilità che porta in forme nuove i marchi aziendali. Vado proponendo diverse ricerche su questo con il rispetto dovuto a iniziative e modi che assicurano introiti decisivi. Nemmeno quando ho visto supplementi giornalistici con il nome di una ditta come testata ho gridato allo scandalo.
Però rilevo che lo squilibrio c’è. E ha conseguenze gravi. Anche di fronte alle notizie più clamorose, quando la redazione individua il da farsi.Un caso. Nella pandemia (35 mila vittime in Italia) alcune fonti non hanno mai reso pubblici dati fondamentali per la comunità: i contagi e le vittime nel territorio. Erano informazioni vitali (per il tracciamento dei contatti) per capire dove e come si sviluppava in modo tragico il morbo. I giornalisti, il giornale poteva (doveva?) cercare in proprio queste notizie, nelle diverse città, negli ospedali. Certo con molti giornalisti mandati sul campo senza ritorno di guadagno immediato.
L’ idea di affiancare i cittadini nel mare disordinato, e non sempre leggibile, della comunicazione ha a che fare con il funzionamento della democrazia. La possibilità di “sapere e deliberare” da parte di tutta la società è sempre aumentata da Gutenberg in poi, con lo stampare, la radio, la televisione e ora con il digitale e l’accessibilità generale del web.
Ma questo una società deve volerlo. Una disinvolta accettazione di “Docking station” con giornalisti a turno, sull’onda di risparmi possibili, approfittando della necessità di distanziamento sociale, va nella direzione opposta rispetto alla domanda di più giornalismo indipendente che ha il cuore proprio nelle newsroom.
Assomiglia troppo a “mandiamo a casa i giornalisti”.
Raffaele Fiengo
Il giornalista nell’età dello smart working (3)
Dopo l’intervento di Giancarlo Tartaglia e di Raffaele Fiengo, ecco il contributo al dibattito sull’uso dello smart working nel lavoro giornalistico di Francesco Facchini.
Come cambiare la redazione con lo smart working
Smartworking e giornalismo. Parliamone subito, prima che sia troppo tardi. Mi è stato chiesto (un onore) di espormi in prima persona per discettare sul tema che sembra essere, a seconda dei punti di vista da cui lo si guarda, un’opportunità o una trappola. Forse dovremmo cambiare la solita prospettiva da cui vediamo le cose, quella negativa, cercando di pensare agli scenari che può aprire nella professione che versa in una profonda crisi di identità ancor prima che di soldi.
Lo stato delle cose. Era il giugno del 2017 quando è stata introdotta in Italia la legge sul cosiddetto lavoro agile. Una norma che declinava gli elementi del rapporto tra lavoratore e azienda (in modo parziale o totale rispetto all’orario) e che aveva elementi innovativi, ma anche una filosofia vecchia. Aveva ed ha elementi innovativi: tra le parti, infatti, si costruisce un accordo che prevede gli strumenti tecnologici adatti al lavoro, l’equiparazione del compenso tra lavoratori agili e non agili, un diritto alla formazione continua e anche quello, importantissimo, alla disconnessione. Molti gli aspetti controversi, il primo dei quali connesso proprio all’ultimo diritto citato nella frase precedente. Il lavoro agile, basato sull’orario e sul controllo, è stato utilizzato, anche in questo periodo di pandemia, come una specie di giogo sulle spalle del lavoratore utile ad aumentare i tempi di reperibilità (e quindi di disponibilità alle operazioni) annullando ulteriormente i tempi di vita rispetto a quelli del lavoro. La disconnessione? Una specie di chimera. Questa legge badava e bada solo ai dipendenti. E i collaboratori?
Gli altri agili. Già, peccato però che giornali, agenzie, siti e televisioni siano fatti da un popolo di freelance le cui garanzie sono pari a quelle dei rider che ci portano il cibo a casa. Zero. Loro sono gli altri agili. Costretti da sempre allo smartworking, non dotati di accordi, se non in rari casi, con le loro testate, omaggiati spesso di tagli unilaterali al compenso, dotati di rappresentanza nulla. Lo smartworking è la loro vita, ma gli strumenti di lavoro sono i loro, i costi sono i loro, la disconnessione un’assurdità. Sono la maggioranza dei giornalisti d’Italia il cui compenso è sotto i 10 mila euro annui in media. Lo smartworking può essere quel combinato disposto tra tecnologie e cambiamento dei flussi di lavoro che può ribaltare la loro situazione.
Le redazioni. Cos’erano le redazioni prima del Covid e dello smartworking? Astronavi in viaggio verso Marte già ben lontane dalla Terra. Le redazioni, negli ultimi anni, si sono staccate dal reale per creare comunità di interessi o fazioni specifiche (molto spesso collimanti con i desiderata dell’editore di turno). La creazione di quell’opera collettiva di rappresentazione e analisi della realtà che doveva essere un medium è diventata altro. Già prima del Covid erano stanze svuotate di contenuto. Ora sono stanze svuotate anche delle persone e un’occasione ghiottissima per gli editori di abbattere un costo. L’apripista dell’operazione? Caltagirone che ha prolungato lo smartworking de Il Messaggero e ora vola verso la vendita di via del Tritone.
Ok, questo lo stato dell’arte. Ribaltiamo il punto di vista. E se lo smartworking fosse la chiave di volta per il futuro? Ormai gli strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione (pc, smartphone e tablet) ci connettono a piattaforme in mobilità sulle quali si possono svolgere tutti i passaggi per la creazione di contenuti di qualsiasi tipo di medium. Già, sto parlando di quello smartworking che anche noi giornalisti ora consideriamo come un autoisolamento, senza pensare che la tecnologia mobile che abbiamo a disposizione potrebbe essere la piattaforma del rilancio. Rivediamo, quindi le posizioni, e gli elementi della costruzione del flusso di lavoro di una testata e pensiamo a come normarli, mettendo sul tavolo i soldi che si risparmiano con le economie di scala delle aziende editoriali e trovando per questi cooptazioni finalizzate a migliorare la condizione di tutto il comparto, non solo quella degli editori.
Le tecnologie? Tutte nel telefonino. Sono un esperto di mobile content creation. Creo prodotti editoriali, formo, insegno, offro consulenze tutte basate sul lavoro interpretato con le device mobili. È ora di scrollarsi di dosso la paura del cambiamento e di far entrare la mobilità nel lavoro giornalistico con l’obiettivo di metterla a frutto per un risultato editoriale migliore e quindi perfino più vendibile. Con il telefonino si girano film, perché non si può fare un intero prodotto editoriale? Sulle piattaforme di lavoro collaborativo si possono costruire i processi decisionali di un giornale, creare contenuti in collaborazione simultanea, scrivere articoli, caricare contenuti multimediali nei programmi di redazione, archiviare, intervistare, produrre video senza contatto fisico, creare infografiche, fare analisi dei dati. Cosa stiamo aspettando?
I nuovi redattori e le nuove redazioni. “Houston, abbiamo un problema…”. Ecco il nuovo ruolo delle redazioni. Devono essere centri di controllo dei passaggi di produzione del risultato editoriale e di protezione e coordinamento dei giornalisti. Luoghi dove si pensa, ma anche dove si vede la realtà che ci circonda. Ogni smartphone di ogni giornalista può essere collegato alla “centrale” per aiutarne il lavoro, coadiuvarne lo sviluppo, guidarlo al risultato. La redazione deve diventare un cuore pulsante di un sistema le cui vene, grazie al lavoro virtuale, tornano ad essere terminazioni sul territorio. Le redazioni, ora mere catene di montaggio quantitativo, tornerebbero proprio grazie ai ponti che costruisce lo smartworking, corpi con occhi e orecchie su quello che sta succedendo nella realtà. I redattori dovrebbero ricevere tra le mani lavoro vivo, eseguito in tempo reale, da trattare per l’armonizzazione col risultato che il cervello di questo corpo ha dato al cuore. Una mia collega, quando deve andare in redazione, dice “vado in fonderia”. I redattori dovrebbero dire: “Vado al centro di controllo”. Per un redattore lo smartworking dovrebbe essere il mezzo con cui andare a cercare la notizia stando di fronte al fatto per poi andarla a rifinire in redazione sulla sua scrivania.
Contratti, collaboratori e mezzi. La contrattualistica della nostra professione è stata travolta dal tempo e dalla crisi. È il momento di cambiarla proprio in chiave smart, ma come un combinato disposto che non risponda più a turni di catena di montaggio, ma sia integrato con i risultati editoriali e migliori la qualità del lavoro e la vita del lavoratore. Il vincolo fiduciario tra giornalista e giornale non dovrebbe più essere governato da numeri quantitativi, ma da numeri qualitativi. Detto questo va aggiunto che anche i collaboratori vanno riconosciuti come smartworker e messi a lavorare con accordi e mezzi adatti alle ore impiegate a costruire il risultato e a rappresentare quegli occhi e quelle orecchie dei quali il corpo redazione ha bisogno. I mezzi? Un perfetto kit da mobile journalist costa meno di mille euro. Anche gli strumenti amministrativi di una testata possono diventare utilizzabili su piattaforme virtuali e codificare il rapporto di lavoro con il contributore. Affinché sia certo e venga pagato. Subito. Come si fa per un idraulico.
Questione di soldi. Gli strumenti del lavoro agile vanno adeguati al tempo e la revisione del ruolo delle redazioni, dei redattori e dei freelance va fatta secondo una logica di sistema. L’editore dev’essere cooptato a mettere sul tavolo le risorse risparmiate dal contenimento dei costi fissi delle redazioni per rinnovare il rapporto con le vene che rappresentano i terminali di quel cuore pulsante che deve ricominciare a essere la redazione, vero centro di pensiero e di controllo tecnico del prodotto finale. Le risorse economiche si trovano lì, ma ci vuole un nuovo impianto contrattuale e di rapporto tra editori e giornalisti affinché siano redistribuite equamente. Non può finire tutto a un gioco per il quale gli editori si sbarazzano degli immobili delle redazione e si mettono in tasca il risparmio. I giornalisti facciano un passo avanti e cambino le regole del gioco, gli editori anche.
Francesco Facchini